Con “Cummeddia”
Cesare Basile giunge ad un secondo disco interamente nella sua lingua
madre. Perchè il siciliano non è (solo) un dialetto. E' un mondo
che coniuga le profonde radici del Sud con il resto del Continente.
E' un ponte e Basile lo attraversa visceralmente in attesa, chissà,
di una trilogia in musica. “Cummedddia” è un'anima e come ogni
anima è spaccata a metà: il bene e il male sono un Giano Bifronte,
sono l'uomo in una continua lotta contro se stesso, la battaglia più
difficile, la lotta contro il bagaglio che si porta dietro, contro i
retaggi che lo formano e che tramanda come se fossero regole sacro
sante. E invece Basile vuole abbattere certi muri con la forza delle
parole, delle immagini, delle metafore, con un desert blues e un
mantra tuareg – che già aveva speriementato nell'album precedente
-, per condannare i potenti, gli omofobi, la virilità a tutti i
costi, il patriarcato ma anche il matriarcato. Eredità che ci hanno
portato ad essere quello che siamo oggi, piegati al volere di un
padrone in attesa che un evento di forza maggiore ci fortifichi.
Ancora un altro gran lavoro per il cantautore catanese, uno dei
dischi migliori di questo 2019 quasi al termine che vede diversi
“caminanti”, alcuni rinomati, apportare il loro contributo:
Massimo Ferrarotto (percussioni), Sara Ardizzoni (chitarre), Vera Di
Lecce (voce, percussioni), Luca Recchia(basso), Hugo Race (tastiere),
Gino Robair (percussioni, elettronica), Alfio Antico (tamburi a
cornice, voce), Alice Ferrara, Daniela Ardito, Vera Di Lecce, Vanessa
Pappalardo, Bruna Vittordino (cori), Hugo Race (chitarre in “Cchi
voli riri?”), Rodrigo D'Erasmo (violino in “Cummeddia”, “Cchi
voli riri?”, “Mina lu ventu”), Roberto Angelini (lapsteel box
su “Mina lu ventu”).
“Mala la terra”: un
elicottero si posa in terra sicula, arsa di “focu”, in cui le
percussioni ammoniscono i cori “Mala la pianta ca nutrica... Mala
la terra che è patria”... un mantra vudù, una preghiera al cielo.
Le chitarre attraggono, attirano, risucchiano così sincretiche.
Radici spesso marce, da nutrire con acqua benedetta, da cui far
nascere germogli, fiori buoni e profumati. Basile canta “tutti i
duluri” della sua Sicilia...
“L'arvulu russu”: il
singolo aveva dato già un assaggio della potenza di questo nuovo
album. Le 6 corde nervose richiamano i cantastorie. Un pezzo alla
Balistreri rimodernato in maniera magistrale, perfetta, con
l'elettronica che si insinua sotto pelle, comu u “sangu russu”.
“E c'è un arvulu russu n'facci a stu gran mari”... il testo ha
due facce: l'albero è un grande platano ultracentenario che
abbelliva la Passeggiata della Marina di Catania; “rossu” è sia
“grosso” che “rosso”. Ma Basile gioca pure sul termine
“iarrusu” ovvero in gerco siculo “gay”. Nel 1939 infatti, a
Catania, racconta il nostro, il questore Molina ingaggiò la sua
personale guerra contro la pederastia. Gli omosessuali furono
perseguitati e deportati alle isole Tremiti. Molti di loro erano
ragazzini che furono sottoposti a ispezioni anali, prelievi di
sangue, oltraggi corporali di ogni tipo per accertare dove nasce e
come si contagia la differenza. Basile è stato ispirato al libro di
“La città e l'isola” scritto a quattro mani da Goretti e
Giratorio.
“E sugnu talianu”: i
synth annunciano quello che un siciliano o un lombardo sono:
italiani. Figli di uno stesso (bel)Paese. I riff seguono una scia
ipnotica: “Nascì in Sicilia e sugnu talianu. Ricitammillo vui
com'è stu munnu e comu n'tà mumentu vota e svota”. Una cantilena
della tradizione dei pescatori della Sicilia Occidentale, ai tempi
dei nostri bisnonni, era la “Canzone dei contrari”. Sembra quasi
un controsenso essere uomo del sud e italiano. Perchè chi è
siciliano forse si sente più africano, abbandonato dal suo Stato:
“Semu n'manu di tanti trarituri”. Ad oggi nulla è cambiato, e
benchè l'isola sia avanti anni luce da chi la dipinge ferma agli
anni '50, tante cose tuttora non funzionano.
“La curannera”:
accompagnata dai tamburelli e da un manto di suoni elettro paurosi,
feroci, atroci. Ancora i riff delle chitarre a lenire. La storia
narra di una ragazza, figlia della curannera, colei –
etimologicamente – che cura i panni, la lavandaia. La giovane è
leggiadra, fresca, vaporosa. Tutto ciò che una ragazza bella deve
nascondere. E se sua madre la appura “cu la mazza ci li veni a
dari”. Basile traccia una parte dei retaggi della sua terra, spesso
patriarcale, dura, altre volte matriarcale (principalmente in tempi
di guerra o quando i mariti erano morti o partiti in mare). E in
entrambi i casi emerge tutto il nostro represso che spesso
tramandiamo.
“Setti venniri
zuppiddi”: sempre più desert blues, il brano procede spirituale:
“C'à tu mi chiami figghiu scemo, a voi s'apiri a viritati? U
figghiu su purtanu n'cielu e a mia mi lassano cà”. In alcune zone
della Sicilia, i venerdì successivi al giovedì grasso si chiamano
“zuppiddi” perchè si identificano in un contadino la cui
leggenda vuole che andasse in giro a spaventare gli uomini, a dire
loro di mangiare tante uova per non perdere la virilità. Una sorta
di disgrazia, insomma. Ancora una volta l'autore condanna i retaggi,
ma con un finale amaro e reale come una fucilata.
“La naca ri l'anniati”:
questo mantra che si dipana in tutto il disco qui riemerge in una
ninna nanna tragica. Non ci sono “San Giuseppi” e “bambineddri”
a cullare il sonno di un bimbo. Nemmeno i vocalizzi lirici possono
quietare l'inquietudine. Drammaticamente, qui non ci sono calde
braccia ad accogliere la “stiddra nfunnu 'o mare”, ma la
morbidezza truce delle onde...
“Chiurma limusinanti”:
una ciurma di pezzenti guida un mood orientale, mistico, su cui si
adagia la voce roca di Basile: “L'esercito ra fame... la tavula è
cunzata, inchiemo li bicchieri, cacciamula sta sta camula cà mercia
li pensieri...” e quando “la fame arriva, l'uomo se ne va”
cantava Manu Chao. Sono tanti, troppi oggi i “soldati” della
miseria, che non possono fare altro che raschiare il fondo. La
“poetica” di Basile rievoca Ignazio Buttitta: “Ncuntravu u
Signuri pa strata
e ci dissi: nun t'affrunti a caminari scausu? Era stancu. L'ossa arrusicati da càmula, a tonaca sfardata a vucca sicca e circava acqua”.
e ci dissi: nun t'affrunti a caminari scausu? Era stancu. L'ossa arrusicati da càmula, a tonaca sfardata a vucca sicca e circava acqua”.
“Cummeddia”:
l'arpeggio danza circolare, sullo sfondo il suono di un flauto di
pan, di terre lontane e di cieli che uniscono. La cometa per i Dei
era un cattivo presagio, portatrice di peste, di “sventura”. E la
paura accomuna tutti, ancora oggi. E quando l'ordine viene stravolto
da un evento naturale, è lì che il popolo si scopre forte e legato.
Ma perchè riscoprirsi vicini solo quando la nostra stessa vita viene
minacciata?
“Chitarra rispittusa”:
una preghiera al cielo, intorno a un fuoco, con strumenti
primordiali. Tamburi, chitarre, percussioni, synth a collante, tetri
accompagnano la mente altrove, Basile è un incantatore di serpenti.
La seconda parte fino al finale è tutta da ascoltare in profondo e
rigoroso silenzio...
“Cchi voli riri?”:
percussioni felpate, quatte: “Stanotte m'ansunnai cà c'erano sti
spini como a chiddri di ficurigna, ca vulavano strati strati e s'an
fincavvano n'da carni di cristiane. E sti spini erano spiddi
intelliggienti, cà ti mangiavanu u ciriveddru. Nenti nenti
addivintavi pazzu”... ma quando qualcuno dice di essere meglio
dell'altro, sicuri siano davvero pazzi? O incredibilmente umani?
“Mina lu ventu”: era
necessario un finale più disteso, con il sound indiano che viene
fuori in maniera leggero da un lato e ossessivo dall'altro. Ma il
pezzo non passa di certo inosservato sia per il violino di Rodrigo
D’Erasmo sia per la lapsteel box di Roberto Angelini. Due nomi due
garanzie.
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