Citando Kurt Cobain,
la musica è matematica. E Paolo Bonifacio si colloca tra le due componenti che conosce bene, da insegnante e da
musicista. Ed è per questo che si presenta col progetto Bonifacio
Madeyes con Marco Giannetti al flauto traverso e Timo
Orlandi al basso: per farci impazzire coi numeri. Per Ultra
Sound Records pubblica “Zero Over Zero”, una di quelle
operazioni non definite, il cui risultato non esiste, che anche se ci
provi la calcolatrice ti dà “ERROR”. A prendersi gioco di te.
Bonifacio però, in questo nuovo album tenta di vincere una difficile
partita a poker. Provvidenziali appaiono le parole di Ivan Graziani
quando pregava il Signore per una svista. Perchè 13 brani di cui la
gran parte dai 6 ai 12 minuti è una sfida rischiosa che ribalta,
solo in tal senso s'intende, “It is preferable not to travel
with a dead man” di Alberto Turra che inserì 5 brani
dai 6 ai 14 minuti. Scelta preferibile. A parte ciò, la formula è
molto interessante perchè Bonifacio Madeyes snocciola improvvisazione, rievocando tribù e deserti d'America, scarpe consumate come
le elettriche che non si risparmiano tra echi country, riff blues,
mood folk rock e un prog incredibilmente dilatato. Ogni brano si
prende il suo tempo, non ha fretta di mostrarsi, ogni cosa è al suo
posto ma riesce ad interagire, ed è questa la carta vincente di una
partita vinta col sudore. “Zero Over Zero” gode di preziose
collaborazioni: Marco Pandolfi e Riccardo Grosso (armoniche),
Stefano Bertolotti (batteria), Andrea Paganetto (tromba) e Anna
Bazueva (voci e flauto).
Ha un intro spaziale
“Ragweed dog”, caratteristica di ogni canzone del disco.
Possenti elettriche riffeggiano fino ad un chorus maschio. Voce
effettata, con echi che si schiantano nelle 6 corde, nella batteria
frenetica. Atmosfere molto anni '80. “As Anyone Seen My baby”
inizia blueseggiante, i flauti sono “spirituali” e
i bisbiglii fantasmi che aleggiano. Bonifacio è
parecchio suadente nella vocalità. Massiccio l'inserimento di parti
strumentali dal sapore blues-rock, lasciate ai fiati e alle chitarre
ululanti, queste ultime molto melodiche nell'assolo per un finale
ipnotico e simil-crossover. Stessa formula viene utilizzata per
“Black Blood”, dove il country si dipana nel deserto texano,
ma qui sono basso e batteria a prendersi la scena, a disegnare
contorni solitari, cupi. Nella seconda parte il gioco di flauti è
notevole con uno spazio per le elettriche massiccie, di quelle che
non si lasciano intimorire da una lunga e arida strada. “Hold
Back/OQZ” porta avanti tamburi a tracciare i passi, come lupi
si aggirano prima di attaccare con un rock che vive momenti musicali
importanti, come se gli strumenti si aspettassero l'uno con l'altro,
per decidere la via giusta da prendere. “Le vocine” però non
compensano gli oltre 6 minuti di brano. “Another Lie” al
contrario vola d'un fiato e quindi fa bene al disco. La voce si mette
ancora una volta da parte in favore di armoniche psichedeliche.
“Very Natural”
scava nella cultura indios, nei riff intriganti, lentamente country.
Interessanti alcuni passaggi, soprattutto quando si inserisce il
flauto che dona il vero senso al pezzo. Mentre la “follia”
iniziale di “Fell On the Ground/Love Depression” lascia
spazio al rock fusion delle elettriche impegnate sui riff e sugli
assoli. La vocalità virile spinge e convince a pieno nonostante i 10
minuti davvero impegnativi; potrebbe tranquillamente essere una jam
in studio. Lo stupore arriva nella seconda parte quando si inserisce
la tromba del musicista ligure Andrea Paganetto a conferire
non solo nuovo vigore ma anche gioia. “Water” è il pezzo
forse più debole nel contesto, perchè arriva dopo i 10 minuti del
precedente. C'è però un intenso scambio tra la voce femminile e
quella maschile, in un vortice di assolo melodico che repentinamente
si trasforma in un flauto che si inserisce improvviso senza sfumatura
alcuna... particolare l'effetto suscitato. Si procede così anche in
“All Along the Watchtower”: questa volta è l'acustica a
intravedersi. A seguire, un crescendo di ritmica e strumenti, col
palm mute in sottofondo e l'assolone che sprigiona nella sua
maestosità puramente rock.
In “Salvation II”
le elettriche sono un manto fino all'inserimento della voce, poi la
seguono con degli arpeggi. Sul finale fa il suo ingresso ancora una
volta il flauto per una fine più mesta.
Poi arriva “Night
Song”: il gioiello
folk di cui avevamo bisogno. E mette a tacere ogni cosa con
un'acustica lacerante, con una voce dall'anima. Basta poco in fondo
per indossare gli abiti da songwriter. E' il brano che realmente
interviene a rompere gli schemi e Bonifacio in questi panni sembra
trovarsi a suo agio... così può tornarci più spesso. La title
track “Zero Over Zero”
sospettosa si avvia
quatta. Un folk rock tendente per conformazione al prog. In 12 minuti
si arricchisce di parti ora minimal, sensuali, riflessivi, ora
aggressivi e “hard” dove anche i flauti impazziscono tanto quanto
la batteria. A chiudere l'album,
“Don't give up on me”,
un crescendo di sonorità. La batteria si muove beat, i suoni della
tastiera e il giro di basso sono blueseggianti ma l'atteggiamento
vocale sempre molto “rockeur”.
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