Spesso
sottovoce, altre volte con un piglio deciso ma mai ridondante: questo
è sicuramente il pregio di “Totem”
(Pandar
Italia/Sugar Music distribuizione Artist First),
il nuovo disco di Emanuele
Dabbono. Un'entità
sì pop ma che riesce a liberarsi da certi standard stantii che
si muovono nei contesti della musica italiana di oggi, dove vige
l'uso e abuso di elettronica, dove tutto è urlato per prevaricare.
La fortuna del disco è proprio questo: un ambiente intimo, una
chiesa sconsacrata di Arenzano (GE) dove è stato registrato, in cui
Dabbono si spoglia dell'etichetta di autore degli ultimi singoli di
platino di Tiziano Ferro. Male non gli fa di certo, ma adesso, a 40
anni, al ragazzo genovese sta un po' stretto. Ed è giusto così,
perchè il cammino fatto sino ad oggi da Dabbono lo si può
comprendere ed ascoltare meglio in questo album che vira anche verso
l'irish e sonorità più di respiro internazionale, commosso com'è
ed emozionato, racconta e si racconta, dà sensazioni rassicuranti
all'ascoltatore che lo sente vicino e in dovere di proteggerlo.
“Totem” è registrato e masterizzato egregiamente in analogico,
la dimensione “home” dei
suoni principalmente acustici è un buon biglietto per salire su un
treno che procederà veloce verso tante tappe della vita. Nel disco
assieme a Dabbono un parterre niente male di musicisti: Giuseppe
Galgani
(chitarra), Fabrizio
Barale
(bouzuki), GiankaGilardi
(batteria), Marco
Cravero
(chitarra acustica), Fabio
Biale
(violino, bohdran), Carlo
Aonzo
(mandolino), Michele
Aloisi
(basso), Antonio
Fantinuoli
(violoncello), Paolo
Bonfanti
(dobro slide), Luigi
Cerati
(armonica), Andrea
di Marco
(tromba), Marta
Moretti
(cori) e registrato da Raffaele
Abbate.
“Piano”: a passo
lento, voce pulita che scalda e abbraccia: “Vengo
da storie di quartiere che si ricordano di te, vengo dal piano di Tom
Waits...” arpeggi e percussioni per niente ridondanti, anzi
netti, minimal, quasi sotto voce inizialmente per poi aprirsi, ma
sempre in maniera modesta, agli assoli lontani come i ricordi, “tutto
ciò che è stato”, “il sogno di quello che sarà”, “l'asfalto
nella voce”.
“Treno per il nord”:
un viaggio per il mondo irish, che inzia flebile, dipinto dal
mandolino. Poi il brano si trasforma in una ballad vocale tipica che
può contare su una parte strumentale in cui i violini disegnano
deliziose melodie: “Se d'inverno sotto il maestrale ti vorrai
nascondere, c'è una casa oltre le frontiere, basta chiedere di me”.
“E tu non ti ricordi”:
gli arpeggi si muovono morbidi così come la vocalità di Dabbono (e
qui si risente una certa aurea presente nei dischi di Tiziano Ferro)
che trema ed emoziona, come avvolto dai ricordi, ancora una volta,
con un bel testo dal sapore nostalgico: “Andavamo alle partenze ma
tornavamo sempre per nascondere il dolore nella stessa stupida
canzone e ripeterci che fingere di essere felici è la tristezza più
alla moda, ma sorrido ancora...” e prende vita un mantra di violini
possenti e cinematografici, slide che viaggiano via in questo “mondo
distratto”... ed è magia... paura... dubbio... fino alla fine...
fino “all'anno prossimo a quest'ora”...
“Parole al vento”:
poche note ipnotiche del piano, l'acustica sciolta, sono in
“equilibrio” con la voce tirata per un “amore scarno”:
“Liberami dalle corde, scioglimi i nodi, lasciami cadere scalzo...
io ti ho chiesto di essere forte”. Nella seconda parte si fa spazio
l'assolo di chitarra che sfida la voce del nostro, che dopo libera il
brano sul finale lasciandolo in balia di sinuosi slide...
“Il senso di un
abbraccio”: accordi circolari semplicistici: “Al casello del tuo
cuore ho pagato più del dovuto” i cori e i violini portano per
mano il brano verso un irish vivo, come il sangue che scorre nelle
vene, in cui Dabbono si sente a suo agio, come “il senso di un
abbraccio”. Ritmo allegro, danzante, che fa del brano uno dei
migliori del disco.
“Irene”: l'armonica,
la 6 corde e Dabbono insieme per raccontare la storia di un amore:
“Irene lascia lì un sorriso e Marco non lo scorda più. Il sole
brucia il cielo e il viso, è lì per dirglielo ma poi la trova così
bella che non parte più”. Poi la chitarra sostiene la struttura
del pezzo che ha i suoi limiti testuali e concettuali.
“Siberia”: “Il tuo
cuore è una puttana e il mio un albergo che non sa affittare nemmeno
una stanza”, l'intro dissonante e caldo si scontra con il titolo.
Quando entrano le chitarre la voce di Dabbono si fa arrabbiata come
non mai. Rispetto ai precedenti, il pezzo è un crescendo e quindi
abbandona un po' il concetto minimal che lo contraddistingue.
“A mani nude”:
martellante in... “Guardare le stelle passare ignare di tutto
tranne che della tua bellezza astrale”, avrebbe potuto passarlo
come autore questo brano. Ma qualcuno lo avrebbe farcito di inutili
synth. Nonostante per circa due minuti la canzone sia abbastanza
piatta, sul finale l'effetto sorpresa: un assolo di bouzuki e la
sezione ritmica che entra fulminea e “dovremmo amarci daccapo”,
sì probabilmente dovremmo.
“Canzone per i tuoi
occhi”: i piatti creano una calda atmosfera e la tromba fa il verso
ad un piano curioso. Solo musica a spezzare, il respiro necessario.
Il finale si ricollega al brano successivo.
“Le onde”: il rumore
come di una cinepresa antica e “solo un po' di paura alle spalle,
una voce ci spiegava la guerra con un segno di pace”, la batteria
ed una frizzante acustica danno solo la parvenza di “Ti scatterò
una foto” perchè il brano ha delle differenze melodiche comunque
notevoli e a fargli bene sono le incursioni del violoncello.
“Luce guida”: il
disco chiude mesto, notturno e potente soprattutto nel finale, con un
vero e proprio saluto dalle sonorità velatamente soul, di chitarre e
violini: “Quando ti penserò, farà strada una luce guida... son le
pagine che non hai tempo di scrivere quelle che vorresti leggere e
non lasciare così bianche” e di cose da dire Dabbono ne ha ancora.
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