Elegante,
raffinato. Uno di quei cantautori, Stefano Barotti, venuto a farci rivivere le
stagioni delle parole ed il peso che hanno, espressioni sussurrate, vite vissute,
storie intime, “Pensieri Verticali”, un uomo che si guarda allo specchio per
rivedersi ragazzo, uno dei due ha più sogni, l’altro la schiena più curva. E non a
caso parliamo di stagioni, come ama definirle l’artista toscano, le quattro stagioni
dell’amore, dove paradossalmente nel risveglio dei sentimenti i brani si
incupiscono per poi ridestarsi timidamente nel torpore di una coperta invernale, perché
rialzarsi aiuta a crescere, a diventare grandi. Di contro, sono le passioni ad
ardere ed incendiarsi, è qui che prende vita il vero significato dell’esistenza
stessa. A corollario uno
stile sì delicato, dove l’essenza della musica – per dirla alla Feldman – per Barotti è il recupero di
un certo cantautorato italiano vestito di garbo, che non ristagna ma riesce a
fornire al disco un respiro internazionale, ora guardando l’area made in USA,
ora strizzando l’occhio ai suoni del Sud. E le chitarre scandiscono il nostro
tempo, i nostri mondi paralleli. Ottimi i musicisti che accompagnano
Stefano Barotti in questo cammino, un’altra perla prodotta e arrangiata da
Raffaele Abbate per OrangeHomeRecords.
“L'uomo
Armadillo”: l'eleganza delle 6 corde, di un flauto solitario, di una batteria
come passi nella notte godono dell'apporto della voce e della chitarra di Jono
Manson generando un indie folk che fa breccia nel cuore notturno “al centro del
petto” di un uomo in una stanza blu in una grigia Milano, “che viaggia
controvento” verso un mondo parallelo eretto come muro per proteggere la città
delle sue emozioni: “Ricordi americani, l'amore per il vino...”
“Il
blues del cuoco”: una storia comune per gente speciale l'avrebbe definita De Andrè
e Barotti lo sa bene e nonostante questo il suo cantare distaccandosi dal
contesto è funzionale. Un testo molto “giovane” con una costruzione alla Ivan
Graziani, con riff che dipingono un blues che nel finale si evolve e s'apre ad
uno squisito assolo dell'elettrica molto clean… “E’ tutta gente nata sotto il
segno zodiacale del fornello”…
“La
ragazza”: gli arpeggi si muovono dentro i sentimenti di una ragazza, le cui
armi sono una “cartina geografica” e una “lacrima d'oro”. L'arma del nostro
invece, è una poetica ricercata e una “musica nuova” che si sposa con la steel
guitar di John Egenes: “La ragazza ha sopra il letto una vecchia foto,
un padre che non ricorda per niente quanti anni ha...”
“Vorrei
essere”: l'intro del banjo serve ad ingannare questo mood reggae dal ritmo
cadenzante che risulta sospettoso, sinuoso, dove irrompe un pianoforte che
prende per mano il brano e lo conduce verso un chorus dalla melodia
trascinante, indubbiamente un gran pezzo che nel finale si può permettere di
far divertire i fiati: “Vorrei essere pietra che devia il fiume, vorrei essere
acqua che la logora, vorrei essere gioco, esser cosa seria, esser ricchezza,
esser miseria…”
Povero
è l'amore”: uno dei brani più cantautorali nel senso puro del termine, dove
quel “povero è l’amore povero è l’amore povero…” ripetuto e ribadito è
l’accostamento amore/inverno che matura proprio come cresce musicalmente il
brano, un binomio di un amore che si manifesta come un “salto, un tuffo…
qualcosa da mettere in tasca… un’idea” e gli archi sono ferite ancora aperte.
“Giudizio
non ho”: leggere le chitarre del Barotti si adagiano con il ghigno ironico
nella vocalità, scanzonata, nel ritornello martellante, di chi sembra non aver
messo giudizio, semplicemente perchè non c'è motivo per farlo, che “la vita è
un grande scherzo che è tutto un castello di carta”, allora l'uomo/ragazzo, a
specchio, parla a sua madre: “Ieri ho rivisto mia madre e mi ha detto potevo
evitare la questione di Babbo Natale parlando al piccolo omino”.
“Rose
di ottobre”: “Il mio amore si è messo le scarpe per partire o tornare non so,
il mio amore si è messo il cappotto per paura o per freddo non so…” il concetto
che nasce con “Povero è l’amore” lo ritroviamo in questo germogliare alle prime
piogge e sono chitarre queste piogge, “dodici nuvole nel cielo d’aprile”, come
gli imprevisti, gli ostacoli da superare ed una porta viene lasciata socchiusa
dal clarinetto.
“A
cena con Drake”: Barotti e i suoi arpeggi dal sound “Madredeus” sono un
personale e sentito omaggio a Nick Drake che apre il successivo…
“Nerone”:
… con le chitarre fado etniche, di slide molto Dylan, di cori afro, un
mix interessante di suoni e sapori contrastanti che ancora una volta crescono
man mano che entra nel vivo, s’incendia, di “teen spirit”, perché sono le
passioni che muovono il mondo: “La neve non c’era ma la facevo arrivare…”
“Ogni
cento parole”: arpeggi dondolanti, soavemente ipnotici, poche note di un piano
che dà il suo benvenuto: “Io che ho scoperto da poco di essere ancora vivo,
volevo soltanto imparare dal tuo respiro…”
“L’arcobaleno
rubato”: i cromatismi delle chitarre ritmiche e soliste e dagli archi accompagnano questo manto di sfumature contrastanti che si adagia sul mondo: "Il mercante ha venduto la terra e ha rubato l'arcobaleno, il rosso lo ha dato ai soldati, l'azzurro l'ha tolto al cielo. Il giallo l'ha preso agli amanti, l'arancio dagli occhi dei bimbi, il viola dai fiori, il verde dal tempo che va..."
“Cuore
danzante”: prendendo spunto da leggende nate sul lago di Como, il nostro mette
su un brit-pop nella ritmica, poi la resofonica dona un’aurea molto anni ’70: “Dice
che tornerà la prossima volta che il cielo nasconderà la luna, per rubarti l’anima
e la sposa”
“Sulla
pietra e sul pane sfidando II”: è il finale del brano precedente con la
chitarra di De Bernardi che tocca punte tuareg su una base pop-rock molto
convincente. Poi nella seconda parte di questo 1.45 appena, l’assolo diventa
sempre più blueseggiante, una boccata d’ossigeno…
“Girasole”:
un finale leggiadro, senza pretese, solo la forza delle parole: “Abbaio al
mondo come un cane, mentre il mondo morde me, la mia foto sul giornale, tutti
sanno tranne te…”
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