…e alla fine arrivano i poeti, gli ultimi baluardi di
una generazione scomparsa. Loro sono gli Edgar, che possiamo definire come una
band cantautorale. E non vi sembri strano, perché è riduttivo parlare di “Anche
se non sembra” come di un disco pop rock. Prodotto dalla band assieme a Daniela
Bianchi e Raffaele Abbate per OrangeHomeRecorods, sicuramente le basi sono
quelle, perché si tratta di un disco “moderno” nella concezione più naturale
possibile, dove i synth non sono invasivi ma al contrario ben si sposano con la
poetica dei testi. Come affermano gli Edgar, il disco “tende al possibile più
che al perfetto” ed è onesto e vero anche perché la perfezione non si cela, citando
De Andrè, dietro i diamanti. Quella è solo “apparenza” come il concetto di
fondo che penetra dentro ogni singolo verso, un bel sorriso, una cravatta ben
annodata, una bottiglia di vino: l’ipocrisia, un dittatore, un uomo perduto…
così come l’elettronica che si vede ma sembra non esserci. Ecco perché i nostri
usano a ragione, in particolare nella strumentazione, un concetto di
spazio-tempo indefinito, tranne che nell’ultimo brano in cui sembrano
svegliarsi e tornare alla dura realtà quotidiana. “Semplicità” è la parola
chiave, “Falsità” quella da cui evadere. “Che bello non desiderare altro se non
ciò che si è già”… e gli Edgar desiderano ammaliarci…
“Vivo”: una voce cantautorale molto essenziale
e puntuale stupisce per l'intro soft ricco di suoni che riproducono i violini
ma che poi torna alla terra madre tra rock e synth... testi non banali di
“apparenza” più che di “sostanza”: “Tra il dire e il fare nel mezzo a remare
con la speranza che s'alzi, s'alzi, s'alzi... vivo anche se non sembra....
“L'astronave”: poetici arpeggi in “Innamorarsi di te una
volta al giorno toglie la pioggia di torno come una mela caduta sulla testa
improvvisa tempesta”... i synth e le chitarre creano un'atmosfera sospesa, come
in assenza di gravità.... e com'è difficile togliere la gravità quando la quotidianità
scorre via troppo veloce...
“Sembra semplice”: la soggettività, la prospettiva di
Edgar prevale sul letto ritmico e senza pretese e che difatti nel bridge vira
verso delle distorsioni più convincenti: “Sembra facile innamorarsi... poi
passano gli anni”, un testo malinconico, da chi ha acquisito una consapevolezza
della vita.
“Gli asini”: l’intro minimal illude e s’apre ad un folk
irish danzante, di chitarre profonde e violini d’ali: “Prendono fuoco le armi,
s’adornano i balconi, di donne e uomini di stasi e di stagioni” anche qui un
testo poetico sulla sotto cultura… bello il gioco di parole pérdono/perdòno.
“D'istinti saluti”: un gran bel gioco ipnotico di chitarre
elettriche e synth spaziali. Ancora un’altra poesia delicata che ci sbatte in
faccia, con un sorriso sornione, il bigottismo e l’ipocrisia che si cela dietro
a signori “d’istinti”, e proprio il caso di dirlo, dietro ottusi dittatori,
falsi miti e falsi amori: “Cari Signori, regali padroni, bravi a cantare doni,
bravi a fare i cani, distinti legati sugli altari, sultani vicini ottusi
animali, seguiti anche voi da leoni sui prati”…
“Lettera”: scritta proprio come una missiva, gli arpeggi
e la ritmica sono sospesi, asserviti all’interpretazione di Stefano Bolchi che
catalizza tutta la sua solitaria attenzione: “Il cuore è un bicchiere vuoto sul
banco del bar che cerca senza affanno senza movimento il collo della bottiglia,
dolce bottiglia, prostituta”…
“Esse Barrato”: procedendo con le sonorità aeree di
prima, un brano molto intimista e anche autobiografico, ovviamente S barrata richiama a Stefano,
il cantante perso nella ricerca dell’io, di un annullarsi dinnanzi
all’immensità della natura, dell’amore: “Chi sono io davanti al mio nome, chi
sono io al di là del confine, chi sono io…”
"Luogo comune": giochi di synth e di
ritmiche ad ottavi, metallici risultano gli armonici, citando Piero Manzoni:
"Sono un fotografo, sono un cantante, merda d'artista in mezzo alla
gente"...
"Tappetino": il brano più rock dell'album
che ribadisce "parcheggio non ce n'è", manca il lavoro ma non i modi
per dirlo: "Sto cercando lavoro negli Emirati Arabi o negli integratori
dietetici, sto cercando lavoro come stuino part time, fanculo
lievitante"...
"La penultima pagina": "Contro un
altro giorno, conta fino in fondo, che non sei uno solo per non essere lo
stesso... lascia consumare il gesto"... funzionali le assonanze, bella la
melodia, anche qui i drums fanno da "metronomo", che dà ritmo ad un
tempo e ad uno spazio indefiniti...
"Già": intro folk con slide che da sole
rivestono l'ultimo atto per gli Edgar. Qui la poesia è anche sonora, si lascia
amare nuda com'è con le sue ferite elettriche ma è anche quasi un controsenso
rispetto ai precedenti, perchè qui si parla del tempo che corre, che ci manca
sempre, è "già" qui: "Già le nubi avvisano del tempo, le maree
già ci avvisano di un tempo". Sublime la voce di Bolchi.
Commenti
Posta un commento