“La
concezione del Tempo” è il disco della band pugliese K-Ant Combolution che
Michele “Caparezza” Salvemini “battezza” a pieno titolo con un featuring e come
paroliere. Il lavoro di Antonio “K-Ant” Cappelluti (voce, suoni),
Ettore Potente (basso) Francesco “Viridjan” Binetti (chitarra) e Giacomo De
Nicolo (batteria) accoglie ospiti graditi oltre ad essere ben contaminato: un
rap che si veste di rock, alternative, un po’ il lavoro che il Capa ha fatto
nei suoi dischi. Ma in questo album viene fuori anche una cultura in
levare insita già nella band che scardina il concetto stesso del tempo che è
sostanza e linfa vitale dell’album in tutte le sue sfaccettature. Tempo come
vita frenetica, come epoca, come tempo che perdiamo a lottare contro chi ci porta
via la speranza, come tempo guadagnato ad attendere un like piuttosto che a
costruire rapporti umani, dove “think different” è solo il concetto
rivoluzionario di un folle. I K-ANT mettono su un disco che li consacra da Molfetta che li ha allevati, ai palchi d’Italia. Indubbiamente questo “parto” è
intelligente, fresco grazie all’uso non massiccio dell’elettronica, guardandosi
bene dal distaccarsi dal rap rock intriso di heavy che ha segnato la fine dei
’90 e gli inizi della nuova era, proprio perché qui le sonorità sono più tetre,
tristi, rabbiose, frustate. Le lancette scorrono inesorabili, eppure la musica
non si è fermata e i K-Ant Combolution lo sanno bene, pertanto anche noi
consigliamo “La Concezione del Tempo”.
“In
time”: lancette scandiscono il tempo dove il suono dei tasti della macchina da
scrivere viene soppiantato da quello della tastiera di un computer, un mondo
fatto di condivisioni in un’era (a)social…
“La
rivoluzione del Ctrl Alt Canc”: … un’era fatta di “strage di parole”, di “copia
e incolla”: “Pronti allo scontro armati di tastiera”, un rap con incursioni
rock dove i synth riproducono i suoni delle notifiche, il basso sostiene la
ritmica e le chitarre impreziosiscono il brano di riff cupi come i tempi che
viviamo: “Come fanatici connessi da mattina a sera, pigiando i tasti come una
fredda guerra vera e la rivoluzione è Control Alt…”
“Babylon
is illusion”: il levare come rivoluzione della concezione del tempo dove, al
contrario del classico sound reggae, qui è il basso che fa la tastiera della
situazione, fa quello che vuole, mentre l’elettrica resta ipnotica. In
generale, nonostante sia abbastanza minimal, gli strumenti riescono ad essere
precisi e ad attendere, ove necessario, la vocalità di Antonio
“K-Ant” Cappelluti su un testo che va attenzionato, il sistema ci vuole
conformare, omologare, privare di ogni forma di ideale: “Vado spedito più che
raccomandato, non sono un pacco perso dalle poste posto che venga trovato, il
risultato la somma di ciò che è cresciuto nel deserto è desolato se non sono
come mi avreste voluto”. Il brano si avvale dei suoni di Giuseppe “Uncle
George” Amato.
“La mia giornata inutile”: raid grunge e sfumature
elettro-rock contro l’apatia che ci corrode, perché ci hanno privato dei sogni,
del nostro futuro, un motivo in più per lottare con le unghie e con i denti,
non restiamo a guardare: “E ci sarà qualcuno che ti apprezzerà oppure fingerà
di farlo se crede che stare a guardare dalla finestra non invecchierà”… qui il
featuring di Luca Molla e Ambra Susca.
“Vuoto”: “E resta vuoto come nel vuoto sociale
nell’indifferenza di un rapporto interpersonale… come le cose che non riesco a
capire come le scelte che non riesco a spiegare”… questione di equilibri
“precari”, di una generazione che ha “perso il senso dell’onestà con le
persone”. Uno scontro a muso duro questo rock oscuro con la società di oggi e
come dare loro torto… qui i synth sono di Claudio Kougla.
“Fossi matto”: punk rock in alcune aperture, ska nella
seconda parte, arricchito dalle vocine ironiche, con un testo fuori dal
“normale”, perché quando pensi diversamente dalla massa o sei un bambino o sei
pazzo: “Il talento non è una scusa per comportarti da idiota…”. Le voci sono di
Gianvito Cofano, Alberto Mocellin e Valentina Masi.
“Nel lontano West”: intro d’arpeggi e fischiettii
cinematografici di scenari non tanto lontani, di un Sud in cui la “vita è una
minaccia”, di mafie che non esistono solo d’estate, che si ammazza ancora nelle
strade nelle realtà d’Italia: “Accade tutto come nel lontano West, ci si
affrontava faccia a faccia nel lontano west e si puntava la pistola nel lontano
west, nel lontano west…” il ritornello risente maggiormente dell’influenza di
Caparezza (non a caso) risultando molto radiofonico. Testo possente che può aprire
facilmente tante strade alla band. Tanto di cappello.
“Il numero 8”: chitarre possentemente hard sincopate su un
piano sonoro ombroso, dove è necessario tante volte un pensiero laterale per
vedere le cose come realmente sono, nude e crude: “Qui non si rispettano
culture diverse, ragioni diverse, fazioni opposte ma sempre le stesse in
imbarazzo per ignoranza, ingordigia, arroganza di azioni represse…”… “mettimi
in orizzontale come il numero 8”…
“Trenta e lode”: continuando nel mood del brano precedente,
con riff in stile ’80 contro i “prigionieri di solitudine”, contro i commenti
sprecati, le falsità che a volte uccidono, perché meglio essere artefici del
proprio destino piuttosto che sbagliare per colpa di chi ci vuole diversi da
come siamo: “Trenta e lode senza l’Università, eccellenza nella mia prova di
maturità molto più di tanti miei coetanei nella mia città, barricati dietro un
muro che nemmeno quello di Berlino aveva tanta falsità”.
“Catodico praticante”: gli scratch di Rino “Hekhizo” De Sario
e il giro intrigante e martellante del basso preannunciano i K-ANT più
pungenti: “Non ci posso credere che sono un catodico praticante, sono un
catodico praticante, sono un fedele che ora fa finta di niente come un catodico
praticante, questo è un catodico praticante, questo è un catodico praticante,
perché un devoto non si interroga di niente”, non un brano contro la religione
cattolica in sé quanto piuttosto contro chi ha “i prosciutti di Parma davanti agli
occhi”, perché spesso non ci accorgiamo del lavaggio del cervello che ci viene
fatto attraverso i messaggi spesso velati di bigottismo e buonismo che passano
in tv… e c’è troppa ipocrisia…
“La concezione del tempo”: sinuosa la ritmica e funkeggiante
l’elettrica, rap cadenzante che fa riposare, giustamente, il disco: “Vedo lo scorrere
del tempo tra le rughe dei miei genitori, fiumi di immagini e profumi di tempi
migliori perché sappiamo di essere la prima di una generazione a stampeggio dei
proprio creatori…”. Ancora una disamina delle abuliche generazioni di oggi. E
va detto, non è solo colpa loro. Le voci sono di Fabiana Cogo e Gabriele
“Elerbagi” Poliseno dando un contributo “esterno” molto prezioso, dove il
chorus è molto orecchiabile.
“Outatime”: giochi di suoni, scherzi elettrici che riprende a
degna chiusura, possiamo dirlo, il primo brano: qui le mani sulla tastiera
scivolano sempre più veloci, non c’è più tempo, occorre compiere una
rivoluzione.
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