“Sole a Catinelle” è l’ennesima dimostrazione del talento
purissimo di Luca Medici in arte “d’arrangiarsi” Checco Zalone, il ritratto
dell’uomo medio, portato ancora una volta sullo schermo per la regia di Gennaro Nunziante questa volta si addentra nella crisi e nella confusione politica di questi tempi, dove
si fa fatica a distinguere schieramenti e bandiere, perché in primo luogo si fa
fatica a comunicare, questa è la lezione che il film regala senza dimenticare
ovviamente di sommergere il pubblico di gag a profusione continua. Rispetto ai
due film precedenti, in termini di sceneggiatura, la coppia Zalone, Nunziante
fa a brandelli qualunque precedente ambizione narrativa, riducendo il corpus a
un canovaccio dove appunto innestare le gag, sia fisiche che verbali, sia di
pancia, che più ragionate, preoccupandosi di mantenere altissimi i ritmi e i tempi
propriamente comici. Su questa scorrevolezza e godibilità narrativa, il film
non pecca d’intelligenza, anzi, è ricco di spunti interessanti e per certi
aspetti si potrebbe equiparare a una favola (non a caso il figlio è di fatto il
narratore) con tanto di morale, ma procediamo con ordine: Checco dopo una fulminante
carriera come rappresentante di aspirapolveri, grazie più che altro alla sua
nutrita parentela: “Che succede, hai finito l’entusiasmo? No, ho finito i
parenti”, è costretto a restituire ogni acquisto “tecnologico” fatto
(consumismo indotto) e si ritrova a dover mangiare alla Caritas, nel mentre della
crisi, la moglie, operaia a rischio licenziamento, lo lascia. La coppia ha
tuttavia un figlio che li tiene ancora uniti e al quale Checco deve una vacanza
da sogno, visti i brillanti risultati di questo ultimo a scuola. Pur professando
il suo “ottimismo”, Checco può permettersi appena di portare il figlio in Molise, a
casa di una zia che lui stesso non vede da trent’anni, ossessionata dal consumo
di energia elettrica, figura che si contrappone allo sperpero perpetrato dallo Zalone neo ricco nei primi minuti del film. Quando finalmente padre e figlio
riescono a “comunicare”, riuscendo a sintonizzarsi sulla stessa frequenza,
grazie alla prima parolaccia del “piccolo” e alle lacrime del “grande”, i due
sono pronti a far finalmente “squadra”. Nel loro peregrinare si imbattono in
una madre e un bambino che è affetto da mutismo e che Checco “alzando
semplicemente il tono di voce” torna a far parlare, il processo di “comunicazione” continua,
la famiglia sfasciata che Checco ha di fronte è composta da un padre, regista
cerebrale e concettuale e da una madre, figlia di un industriale, si potrebbe
parlare di alta borghesia o al limite di radical chic, ma essendo quest’ultima vegana, per Checco si tratta
inequivocabilmente di comunisti. Ed è qui che il processo di comunicazione va a
incontrare la sfera politica e la profonda confusione dell’uomo qualunque
Checco, che si troverà per riconoscenza da parte della madre a frequentare gli
ambienti più in del jetset, portando ancora più in alto il grado di comunicazione,
felicemente a suo agio tra economi e industriali, semplicemente perché chi
meglio dell’uomo qualunque, esperto di prestiti e assegni post datati, conosce l’economia?
“Le banche quando hai un grosso debito, ti rispettano”. Non andiamo più in là
per quanto concerne la storia ma è bene rimarcare come man mano che Checco
prosegua la sua opera di “Comunicazione/Purificazione” si imbatta e diventi
anche esso “depositario della confusione politica”, passando da Che Guevara: “Scusi
della Che Guevara avete pure i borselli?” Ai campi da golf, dalle giacche
improbabili, ai panni del sindacalista con assoluta nonchalance a marcare “il
qualunquismo e la politica di mestiere” nel nome di una critica dissacrante e pungente.
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