L'ultimo ricatto di Paolo Saporiti



“L’ultimo ricatto nasce dall’esigenza di uscire da quell’angolo nel quale mi ero andato a chiudere negli ultimi anni in ambito musicale. E’ la fotografia, la metafora di un momento della mia esistenza come uomo, in senso lato, per come mi sono andate le cose, fino a ieri”. Dice che il disco racconta un momento della sua vita il folk songwriter Paolo Saporiti e noi aggiungiamo anche che si tratta dell’ultimo ricatto dell’uomo alla Terra, che deve pagare un alto prezzo per la sua quotidiana sopravvivenza. Saporiti è giunto al suo quarto album sicuramente con più consapevolezza, maturando… e distaccandosi lievemente dai sapori candidi a cui ci aveva abituato… approdando a questo disco, dove la dolcezza che invitiamo a scoprire e che può sorprendere, si scontra con la ruvidezza dei suoni del suo produttore: Xabier Iriondo… un maestro ormai delle “distruzioni sonore”.  Diciamo subito che il disco ci piace e anche molto… ma non manca di farci male allo stomaco come un pugno! Un disco che dà la sorprendente impressione che mentre Saporiti canti tutto il resto del mondo sia impegnato in qualcos’altro… e tutti i suoni/rumori/onomatopee/eventi naturali di sottofondo ne sono un esempio. Il risultato? Un arcobaleno (la sua voce) che trafigge una giornata di tempeste e cicloni… riassumendo: 
"Un album semplicemente sublime":

“Deep down the water”: Terra, acqua, fuoco, aria, amore, libertà, tutti elementi che ci fanno vivere e che danno linfa alla natura così violentata, così deturpata da lame e lamiere, da uomini e mostri… e la sua voce, la voce di Paolo Saporiti come stelle cadute dal cielo a raccontare la bellezza del mondo, di quella radice ancora verde che può partorire nuova vita… un piano delicato a pulirne l’anima…a darne da bere…

“War (need to be scared)”: la voce di Paolo sicuramente non può non far ricordare Jeff Buckley… è inevitabile… ma anche Tim, che molti lasciano ingiustamente nel dimenticatoio, quando Paolo stira le corde vocali e si fa più serio e cantautorale. Dopo un intro molto noise che prosegue con uno rumore di ferraglie,  il contrasto con gli imponenti arpeggi dell’acustica si sposa a meraviglia.

“I’ll fall aseep”: un flebile arpeggio di chitarra si schianta contro il muro noise dell’elettrica…che spunta come un canale che la tv via cavo non ti riesce a far vedere… la collisione musicale potrebbe far storcere il naso e distogliere l’attenzione dalla vera protagonista. Questa però è l’impronta Iriondiana. La batteria si lascia andare in lanci jazzistici e non potrebbe essere altrimenti con Cristiano Calcagnile.

“Sweet liberty”: il disco si caratterizza per uno sfondo di suoni, l’acqua che scorre e fabbriche appena sveglie la mattina e temporali che la chitarra riproduce leziosamente… vera chicca di questo disco… e ancora Paolo e la sua magica voce che trasporta e commuove…

“We’re the fuel”: il brano è un crescendo di strumenti, una lava di suoni, di colori che solo grandi musicisti sanno far esplodere… e Xabier Iriondo, Zeno Gabaglio, Stefano Ferrian e Cristiano Calcagnile, sono musicisti formidabili…

“Toys”: difficile trovare un artista, un cantante, un musicista che ti fa completamente dimenticare la realtà, che ti porta altrove... brano potente, possente, maestro, che posa su di una sezione ritmica che fa rabbrividire  qualunque musico… leggiadri si vola…”carry me on”…

“Stolen fire”: la vera natura del cantautore milanese esce fuori visceralmente, vomita e potente vibra al fianco di una vocalità sempre puntuale e precisa, così pulita nella sua distorsione, una miscela di sapori… la chitarra muove gli arpeggi ossessivamente incrociando il cello in un'esplosione folk dal lontano Bronx con un banjo che ci mette del suo… un brano diviso a metà, l’acqua… e il fuoco…

“Never look back”: probabilmente il brano più pop folk del disco, ma le incursioni noise vogliono farci sembrar altro… ma sporca il giusto e qui la voce di Saporiti si fa più decisa e acuta… un’altra canzone che ci mostra la sua vera faccia: la destrutturazione tanto cara al produttore del disco, che a nostro avviso, più che fare centro, ha messo in rete una goleada di perle in musica…e non è facile “sfregiare” un brano di una simil dolcezza con incursioni elettroniche… la formula è vincente.

“The time is gone”: gli intro ricchi di arpeggi di chitarra a cui l’album ci ha abituato, sono assillanti ed il sax nervoso di Ferrian ancora una volta si schiantano meravigliosamente con la voce del nostro, così silenziosa, così sussurrata che non nasconde una ninna nanna sul finale dell’ottima produzione artistica vantata.

“In the mud”: un brano da ascoltare in cuffia, con il ritorno prima in una e poi nell’altra di un “segnale acustico” ossessivo da far perdere la testa… più che dal fango, il brano sembra discendere dal cielo… ancora una voce bisbigliata da brividi sulla schiena… che si congeda a suon di marcetta…

“Sad love, bad love”: difficile davvero scegliere il miglior brano di tutto il disco che comunque mantiene in tutte le canzoni una certa continuità di suoni e se sei davvero brano, riesci a non farlo pesare. Il vantaggio di Saporiti? Non farlo pesare e farne la sua forza… non ditegli più che assomiglia a Buckley…padre o figlio che sia, Paolo Saporiti è Paolo Saporiti, delicato, sublime, a volte struggente…naturale, alieno ed il finale ce ne dà conferma nel crescente caos elettronico da brividi…

“F. R. I. P. P.”: il brano che chiude il disco, da sentire e risentire è un vero diamante… la madre tra le perle… qui la voce del cantautore milanese si fa quasi parlata, quasi “spaziale” e gli arpeggi così caldi sono una coperta che avvolge e abbraccia… un orgasmo di sensazioni… beh, volendo osare, Fripp è anche il nome del chitarrista fondatore dei King Crimson… il primo (con Brian Eno) ad utilizzare una tecnica particolare di elaborazione elettronica della chitarra, uno dei chitarristi più sperimentali della storia del rock… chissà… intanto i brani del disco danno l’impressione di finire troppo presto…replay…

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